venerdì 22 giugno 2012

Le regole e la sala di preghiera


Come hanno riportato i giornali locali, venerdì 8 giugno, nei parcheggi di fronte al palazzetto della Polisportiva Besanese in via De Gasperi, un centinaio di cittadini di Besana, Renate, Veduggio e Cassago si è riunito per pregare. Si è trattato in particolare di un gruppo di cittadini musulmani, che si erano dati appuntamento per la preghiera comunitaria del venerdì. Oltre alla preghiera, il significato di questo gesto volutamente ostentato (già compiuto una settimana prima di fronte al palazzo comunale di Renate) era chiaro: portare l’attenzione delle amministrazioni dei loro Comuni di residenza su un problema che da tempo causa disagi alla comunità musulmana locale. La sala che il Comune di Renate aveva assegnato all’associazione islamica ‘La Pace’ è troppo piccola (per legge non può contenere più di 30 persone contemporaneamente) per poter ospitare i membri della comunità, in particolare il venerdì, quando per la preghiera insieme si riuniscono abitualmente più di 150 persone. Per evitare di incorrere in sanzioni e per rendere possibile lo svolgimento delle attività dell’associazione, questi cittadini hanno chiesto uno spazio più adatto all’amministrazione renatese, la quale, però, ha risposto negativamente. Da allora hanno iniziato questa itinerante preghiera all’aperto, allo scopo di portare il problema sul tavolo delle giunte locali. La questione ha infatti dimensione sovra comunale, dal momento che la causa dell’affollamento della sala di Renate sta nell’assenza di spazi simili nei Comuni confinanti. La soluzione non sembra impossibile: trovare un unico spazio più grande (da usare per un’ora sola il venerdì, come chiedono i rappresentanti de ‘La Pace’) o concedere in ogni comune uno spazio per evitare sovraffollamenti in un unico posto. Il sindaco di Veduggio ha fatto una “proposta di buonsenso: che ogni Comune coinvolto ospiti a rotazione la preghiera”.
Io non vorrei discutere delle ragioni per cui sarebbe opportuno o inopportuno concedere a Besana uno spazio per la preghiera comunitaria dei cittadini musulmani: è una discussione che spero avvenga presto in Consiglio comunale. Vorrei invece fare una breve considerazione sulle reazioni che hanno avuto in merito a queste richieste i politici besanesi. Anzi, lo ammetto, sulle reazioni cha ha avuto in merito un ambiente politico particolare, quello leghista. Non per malizia, è che in queste circostanze spesso è dagli ambienti leghisti che provengono le riflessioni più interessanti.
Dopo il fatidico venerdì, le reazioni dei leghisti non si sono fatte attendere e sono state particolarmente vivaci: dichiarazioni alla stampa, link su facebook, commenti sul sito web, striscioni NO-MOSCHEA (moschea?) esposti dai ponti, presidi di protesta in piazza a Besana… A parte i trend topic “siamo noi i padroni a casa nostra” e “non finiremo come gli Indiani d’America nelle riserve” (immancabili evergreen), mi è sembrato che le proteste padane gravitassero intorno a un concetto specifico, quello di legalità. O meglio, di illegalità. In particolare, i musulmani venivano accusati di aver occupato abusivamente uno spazio pubblico (i posteggi di fronte alla Polisportiva) senza alcuna autorizzazione. “Questi stranieri vengono qui da noi e non rispettano nemmeno le nostre leggi!”,  si diceva dal palchetto del presidio. Ora, queste osservazioni mi hanno colpito soprattutto per due motivi. Il primo motivo è la loro falsità: come riportano i giornali, il raduno era autorizzato, avendo ottenuto il beneplacito del prefetto e del sindaco Gatti (sì, quello a capo della giunta Pdl-Lega). Il secondo, più importante, è che comunque tali proteste manifestavano un profondo attaccamento da parte dei leghisti nei confronti delle regole di convivenza civile. Devo ammettere che questa implicita manifestazione di attaccamento alle regole mi ha fatto piacere, in particolare a saperla proveniente da chi, in alcune occasioni, ha dimostrato sulle regole relative agli spazi pubblici di saper innocentemente chiudere un occhio (vd. imbrattamento  di muri con graffiti o attacchinaggio abusivo di manifesti su spazi elettorali). Poi però, complice la parte più maliziosa di me, mi sono chiesto: e se tale sentimento legalitario non fosse così genuino?  Se questi appelli al rispetto della legge fossero un po’, come dire, faziosi e servissero principalmente a fornire argomentazioni socialmente accettabili a favore della istintiva protesta contro i musulmani? Questo mio dubbio si è poi rafforzato quando mi sono reso conto che questo fervore legalitario andava a toccare solo alcune leggi e non altre. Per esempio, com’è possibile che nessuno, in questi discorsi sulla legalità e sull’importanza del rispetto delle regole, accennasse a una ‘regola’ secondo la quale “tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge”? O a quella secondo cui “tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume”? Eppure tali norme sono di una certa importanza, dal momento che costituiscono rispettivamente l’articolo 8 e l’articolo 19 della Costituzione Italiana, documento che, in termini di giustizia e libertà, segna una posizione più progredita dell’Italia rispetto a quella di altri Paesi in cui diritti di questo tipo non vengono riconosciuti (per questo non riesco ad apprezzare le parole del sindaco Gatti, quando afferma: “io sono per la reciprocità, un cristiano non può ottenere luoghi di culto nei Paesi islamici, quindi perché noi dovremmo fare diversamente?”). Ecco, nei discorsi legalitari post ‘scandalo Islam’ tali regole non venivano neppure citate. Neppure prese in considerazione per, come è legittimo, muovere nei loro confronti delle osservazioni, anche delle critiche. Quello che mi chiedo quindi è: se le regole sappiamo chiamarle in causa solo quando ci fanno comodo, non sarebbe meglio non chiamarle in causa proprio e mostrare le nostre personali convinzioni per quello che effettivamente sono? Non sarebbe meglio evitare di assegnare alle regole, che dovrebbero essere uno strumento a favore di un’armoniosa convivenza collettiva (anche interculturale e interreligiosa, perché no?), l’impropria funzione di armi per far (pre)valere i nostri interessi (o timori) a discapito dei diritti altrui?

 Daniele

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